IN SEARCH…
«Quando tagli le radici di un albero, questo non crescerà mai. Appassirà. Questo è ciò che accade quando mutili i genitali di una donna. La zittisci. La soffochi». (B. Magoko)
In Kenya, come in molti altri paesi, africani e non, il corpo femminile è considerato socialmente valido solo quando è “chiuso”, protetto dagli assalti e dalle impurità. Così anche i genitali femminili vengono “nascosti” tramite pratiche rituali denominate dalla comunità internazionale “FGM”, per esteso “Female Genital Mutilations” – termine tradotto in italiano con “MGF”, “mutilazioni genitali femminili”. Questa espressione racchiude un insieme di pratiche diverse tra di loro che spaziano dalla rimozione parziale della clitoride all’infibulazione.
Al pari di molte altre donne sue compatriote, anche la regista kenyota Beryl Magoko è passata attraverso la mutilazione dei propri genitali, ma la narrazione di ciò che è successo sfida la banalizzazione del dibattito pubblico, che vuole le donne come prive di possibilità di scelta – non si può dire che Beryl abbia scelto la mutilazione ma certamente si può dire che è andata incontro a essa, accettando inizialmente questa pratica culturale, ormai naturalizzata nella società in cui vive.
Anni dopo essersi sottoposta alla pratica, torturata da lancinanti dolori mestruali conseguenti all’operazione rituale, le MGF si rivelano alla regista sotto una luce diversa – non come qualcosa che “naturale”, che è “da farsi”, ma come una tremenda violenza. Tuttavia, viaggiando tra il Kenya e l’Europa, dove ormai risiede da anni, Magoko si rende conto che la pratica al giorno d’oggi non solo è evitabile – è messa in dubbio da molte compatriote, tra cui sua madre – ma addirittura reversibile: grazie alla chirurgia plastica, viene offerta alle donne che hanno subito le MGF la possibilità di ricostruire i propri genitali. Tale offerta porta la regista davanti a un bivio, a dover prendere una decisione che, qualunque sia l’esito, la renderà vera protagonista della sua emancipazione.
Pur prendendo chiaramente posizione contro il fenomeno, il documentario, piuttosto che limitarsi a condannarlo, tenta di condurci alla comprensione dello stesso; per trattare un tema a cui molto spesso ci si accosta con l’intenzione di scandalizzare l’audience elencando cifre di “vittime”, il documentario sceglie un approccio intimista centrato sui soggetti, in cui nulla è forzato: le decisioni prendono il loro tempo e sullo schermo sfilano tutte le emozioni con corpi che piangono, ridono, si esplorano o, semplicemente, si nascondono dalla telecamera rifugiandosi sotto un piumino.
Beryl Magoko ha studiato cinema all’università di Kampala in Uganda e successivamente all’Academy of Media Arts di Colonia, in Germania, dove risiede tuttora. Il suo primo film, “The Cut”, ha ricevuto numerosi premi internazionali. Ha girato anche i corti “Fred Fish Frying” (2010) e “Water for Janet and Felicitas” (2013).
Il documentario “In search” è stato mostrato in anteprima a Lipsia e ha vinto l’“Audience Award – Leipziger Ring” e il “Best Student Documentary at International Documentary Film Festival Amsterdam”.